Le pagine di Cismon da Cismon
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Cismonese, ostaggio e prigioniera dei nazisti
di Fernando Rizzon
Che cosa ricordi di quei tragici giorni?
Non ricordo precisamente la data ma eravamo attorno al 20 maggio 1944. Avevo allora 26 anni, essendo io nata nel 1918, in Sicilia, durante il profugato della mia famiglia, a causa di un'altra brutta guerra.
Con in braccio mio figlio Antonio di appena un anno stavo andando da mia madre quando, all'altezza della chiesa parrocchiale di Cismon del Grappa (VI), sono arrivati due tedeschi con il mitra spianato e uno di essi mi disse: Deve seguirmi al comando. In quel momento stava arrivando lì mio cugino Vigilio (Gigi da Les), l'ho chiamato e consegnandogli il bambino gli dissi: Portalo dalla mia mamma che arrivo subito, credendo si trattasse di un equivoco che si sarebbe subito chiarito.
Il comando delle SS era nella casa di Antonio Donazzolo (Toni Belegno) in via 4 Novembre ed è lì che cominciarono a interrogarmi insistentemente. Volevano che dicessi dov'erano i miei fratelli Pierino e Antonio (avevano i loro nomi scritti in una lista assieme ad altri nominativi), considerati banditi, come loro li definivano, perché non si erano presentati al comando militare. In effetti i miei fratelli assieme a molti altri giovani cismonesi si erano rifiutati di combattere assieme ai nazifascisti e si erano uniti ai partigiani (brigata Gramsci) sul Monte Grappa scegliendo la Resistenza. Io dicevo loro che non sapevo dov'erano, che, essendo sposata, facevo parte di un'altra famiglia. Il comandante delle SS, puntandomi la pistola alla tempia, mi diceva continuamente: Se non parli non vedrai più il tuo bambino e continuava: "Non vedrai più il tuo bambino
Intanto la mia mamma informava mia sorella Antonietta di quanto era successo e la esortava a recarsi al comando per vedere cosa volessero dalla sorella Ernesta. Appena giunta al comando e presentatasi per chiedere informazioni si sente dire dal comandante: Proprio anche lei cercavamo. E arrestarono anche mia sorella che allora aveva 31 anni, essendo nata nel 1913. Poi venne al comando anche l'arciprete don Caron per vedere e dire che eravamo brava gente, cercando di mettere una buona parola, la risposta fu un gran schiaffo e l'accusa di difendere i partigiani. Invece lui era venuto proprio per testimoniare che ci conosceva bene dato che abitavamo proprio di fronte alla canonica. Lo rilasciarono perché -dissero- era un sacerdote, altrimenti avrebbero arrestato anche lui.
La sera stessa ci caricarono in tre su di un camion: io, mia sorella Antonietta e Luigi Donazzolo (Gigetto Belegno) che era ancora un ragazzo. Sul cassone c'erano soldati da una parte e dall'altra, con la mitragliatrice puntata e noi in mezzo. Gigetto, che era figlio del proprietario della casa dove si trovava il comando delle SS, era stato catturato perché lo avevano visto con un potente cannocchiale, installato presso il Bar Nazionale, risalire la mulattiera della Gusella. Il suo nome non era compreso nella lista redatta dai fascisti, lui non c'entrava niente, tuttavia i suoi movimenti avevano fatto loro pensare che fosse una staffetta di collegamento dei partigiani.
Il camion fu fermato quasi subito ad un posto di blocco posto di fronte al Bar Nazionale dove c'era il comando della Wehrmacht. Lì c'era mia sorella Maria assieme a Luciana Rizzon, sua nipote (Luciana Marcheta), la quale si tolse e riuscì a lanciarmi il suo golfino rosso perché avevano visto che indossavo un abito leggero di seta con le maniche corte, e faceva fresco la sera. Da lì il camion ripartì verso Nord. Mentre attraversavamo il ponte sul Cismon, mi assalì uno sconforto, un'ansia, un'angoscia terribile. Ero in viaggio verso l'ignoto e stavo per lasciare il mio bambino, i miei cari, il mio paese. Avevo la sensazione che non avrei più rivisto questo mio mondo. L'autocarro ci portò a Roncegno (TN) dove il Donazzolo fu portato nella prigione della caserma dei carabinieri mentre noi sorelle fummo messe nei sotterranei di una villa, dove c'era un comandante delle SS talmente brutale e malvagio da essere soprannominato la belva.
In quella villa, dopo la fine della guerra, è stato raccontato che sono state ritrovate molte unghie umane. Nei sotterranei ci hanno interrogato. C'era una donna SS, con una faccia da luia (porca), che fumava e rideva e mi fissava con uno sguardo cinico e sprezzante mentre il comandante SS con l'aiuto di un interprete, forse altoatesino, cominciò col dirmi: Levati quella maglia, è rossa anche. Io gli risposi: Questa mi hanno dato (ma intanto pensavo, forse se fosse stata nera non me l'avrebbe fatta togliere). Mentre mi puntava la pistola alla testa anche lui mi diceva: Se non parli non rivedrai più il tuo bambino. La luia continuava a ridere beffarda. Me la ricordo ancora adesso quella faccia.
E' qui che il comandante mi ha sventolato la lista con i nominativi di sette, otto persone, tra i quali oltre ai miei fratelli Pierino (Falco) e Antonio (Merlo) c'erano quelli di Vettorel Narcisio (Moro), Rizzon Mario (Barba), Ganzer Luigi (Borgia), Caenaro Dante e altri che non ricordo. E ' qui che ho potuto vedere le firme dei delatori, fascisti e fasciste del nostro paese, purtroppo. Nonostante le pesanti pressioni e minacce non parlammo e alla fine ci portarono nelle carceri di Roncegno che si trovavano nella caserma dei carabinieri.
Fummo messe in una cella accanto a quella occupata da un vecchio e da Gigetto che continuava a dirci: E' qui che si gratta, è pieno di pidocchi. E non solo grattava, cantò anche tutta la notte. Era stato messo in prigione perché indossava una cravatta rossa; non aveva saputo resistere alla proposta di una squadra di ragazzi che gli avevano detto: "Nonno, se vieni con noi e ti lasci mettere la cravatta rossa ti paghiamo un litro di vino. E lui: "Metéme quel che voé e déme el vin". Questo è bastato per metterlo dentro.
Qui, in questa caserma, ho trovato delle persone buone e sento il bisogno di ricordarle. Erano l'appuntato dei carabinieri e sua moglie. A sera, per non farci dormire sul pavimento, ci portava giù dei materassi, che poi riportava via al mattino presto; e sua moglie che avendo saputo che mi avevano separata brutalmente da mio figlio di un anno, mi portava in cella il suo che aveva circa la stessa età, naturalmente convinta di consolarmi.
Il giorno dopo è venuta su da Cismon la Margherita Beraldin (Menaroe), la cognata di mia sorella Antonietta, per portarmi il mio maglioncino. Ma quando si presentò le dissero: "Il maglioncino non le serve perché domani mattina all'alba saranno fucilate!" Non la fecero entrare, per cui non la vedemmo che attraverso un piccolo finestrino.
Dopo, là a Roncegno, in carcere, avevano portato dentro sette giovani: uno di Valstagna, che mi pare studiasse maestro, non l'ho più visto, e gli altri da Conco, da Asiago, da Gallio ... da su di là erano. Questo ragazzo di Valstagna, il nome non me lo ricordo, era andato a trovare sua mamma che era su a Gallio in villeggiatura, e dovrebbe essere stata una maestra anche lei, questo ragazzo si trovava lì durante un rastrellamento e lo hanno catturato. Lui continuava a dire: "Io non ho mica fatto niente, sono studente, mi mandano a casa. Avrà avuto vent'anni. Non ho più saputo nulla di lui.
Mentre Gigetto fu considerato estraneo e rimandato a casa, noi sorelle assieme ai sette giovani fummo portati alla stazione e caricati su un treno merci, sui vagoni da bestiame, e ci hanno portati da Roncegno fino a Bolzano, in carcere. Lì siamo rimaste otto giorni. Assieme a noi c'erano altre donne, del Feltrino. L'ultimo giorno entrò la guardiana e disse: "Sorelle Fiorese siete libere". Una donna di Seren cominciò ad urlare:"Perché loro si liberarle e noi no?" Era andata addirittura fuori di testa, poveretta. La carceriera ci disse: "Passate all'ufficio a prendervi le vostre cose. Mi avevano tolto la veretta, gli orecchini, la collana.
Scendiamo, apriamo il portone e troviamo la SS che ci aspettava con un camion. Altro che libere! Ci hanno caricato e portato al campo di concentramento, sempre a Bolzano. Lì siamo rimaste quasi un mese. La camerata era tutta grande. Penso che eravamo in mille e più prigionieri, c'era anche Giuliano Pajetta, fratello di Giancarlo Pajetta (che in seguito divenne un famoso deputato). C'erano i letti a castello e una parete divideva il reparto uomini dal reparto donne, ma la parete non arrivava al soffitto, sicché si sentivano le voci venire da là a qua. Lì, ci contavano molte volte al giorno perché temevano fughe. Una volta, durante una conta, mi sono presa una frustata. Volevano che stessimo dritti, perché andavano meglio a contarci; c'era il sole che ci bruciava, si vede che avevo la testa un po' piegata, perché era stanca, e me l'hanno raddrizzata ... con un colpo di frusta e in quel momento ho avuto la sensazione che la mia testa volasse.
Ma c'era gente che riusciva a scappare da là?
Una ne ho visto io! Una di noi ha tentato la fuga, ma l'hanno presa, poveretta, e l'hanno punita duramente e non so neanche se è morta. D'altra parte se fosse riuscita a fuggire, fuori c'erano gli Altoatesini che erano tutti d'accordo con il Comando, li avvisavano immediatamente. L'hanno presa, poveretta. Mamma mia!
Vi facevano lavorare?
Sì, ci portavano, i primi tempi, non so dove, in un capannone a far tende, precisamente a cucire bottoni su tende militari da campo. Eravamo inquadrate. Una sera ci avevano chiusi dentro, come sempre, pensavamo fossero andati tutti via, ma si vede che uno rimaneva là di guardia. Di là con gli uomini c'era un prete genovese, anch'egli prigioniero, si chiamava don Andrea Gaggero. C'era tutto silenzio, disse: "Nel nome del Padre, del Figliolo e dello Spirito Santo. Preghiamo il Signore che ci conceda la grazia di ritornare presto dai nostri cari". Sentiamo: "Cane, figlio di un cane! Che sia la prima e l'ultima volta che sento nominare il nome di Dio qua!". Era il guardiano delle SS che era entrato appena udita la preghiera. E lo portarono via per punirlo. (Quando rividi don Gaggero a Bassano, anni dopo, in una cerimonia di commemorazione dei Martiri del Grappa mi disse: "Ti ricordi quella sera che mi hanno fatto venire la testa così?!". Lo avevano bastonato e caricato di botte ed era diventato tutto gonfio. In seguito fu deportato ad Auschwitz. Riuscì comunque a sopravvivere e dopo la guerra fu insignito del Premio Lenin per la Pace. In occasione dei festeggiamenti per il riconoscimento del Premio, fui invitata a Roma anch'io).
Il giorno successivo ci dissero: "I numeri che adesso chiamiamo partiranno per la Germania". Mentre elencavano i numeri ci sentimmo sollevate perché pensavamo di essere state saltate, ma verso la fine dissero anche i nostri numeri che erano: 252 per me e 253 per mia sorella. Prima di partire questo prete, oltre la rete che ci divideva dagli uomini, fu nascosto dalla vista dei tedeschi da un capannello di compagni di prigionia, e a noi di là ha detto: "Avvicinatevi che vi dò la benedizione". Ci ha benedetto e siamo partite in tradotta ferroviaria, assieme ai sette giovani con i quali eravamo partite da Roncegno. Sostammo in un campo di concentramento e smistamento a Innsbruck. Mentre i sette giovani furono mandati da un'altra parte, noi siamo state deportate in Alta Sassonia. Ne ho visto uno, di quei giovani, all'ospedale di Bassano, subito dopo la guerra, in sanatorio, così mal messo che mi ha fatto "ingroppare", non mi sono neanche fatta vedere dalla pena che mi ha fatto, e non ho neanche avuto il coraggio di chiamarlo.
Noi fummo deportate a Schkopau, presso Spergau, vicino a Lipsia, in Alta Sassonia, non lontano da Berlino. Almeno questi sono i nomi che riuscimmo a vedere nelle ultime stazioni. Il campo di concentramento non aveva nome, o almeno noi non lo conoscevamo. Era un campo di prigionia e di lavoro. Non mi risulta che fosse di sterminio. Le baracche erano parzialmente di mattoni e parzialmente di legno e non erano riscaldate. Gli inverni dell'Alta Sassonia sono molto rigidi. Il campo era diviso in settori per nazionalità: c'era un settore italiano, uno francese, uno polacco, uno russo - ucraino. Inoltre in ogni settore si era divisi per sesso. Eravamo circa mille italiani. Le baracche erano divise in stanze con sei letti a castello per 12 persone ciascuna. Lì non avevamo un numero, ma solamente una casacca di cotone con una croce di Sant'Andrea di minio rosso dipinta sulla schiena per essere facilmente individuabili in caso di fuga. Nonostante questo abbigliamento leggero e l'inverno rigido, né io né mia sorella ci siamo prese nemmeno un raffreddore.
Ci facevano lavorare. Poiché c'erano i bombardamenti le fabbriche lavoravano solo di notte. I turni andavano dalle 6 di sera fino alle 6 o 7 di mattina a seconda dei bombardamenti, per complessive 12/13 ore, a volte anche senza mangiare. C'era tutto un alfabeto di fabbriche. Io venivo mandata in una fabbrica esterna al campo, detta "F 25", in cui si lavorava la gomma per i pneumatici. Bisognava sorvegliare dei recipienti a pressione e controllare continuamente i manometri in modo che la pressione non salisse troppo e non scoppiassero. Non bisognava assolutamente addormentarsi. Venivano lì col mitra e dicevano: "Guarda che se sbagli ... Kaputt!" . Una volta una collega si addormentò e scoppiò il recipiente a lei affidato. Dissero che era stato sabotaggio e, senza nemmeno interrogarla, fu uccisa sul posto con una mitragliata, in presenza degli altri operai. Puoi immaginarti se dopo quel fatto mi addormentavo!
Vi davano abbastanza da mangiare?
Ci davano una fetta di pane che doveva bastarci due giorni, e invece ci durava a malapena un'ora, e una zuppa di finocchio che ci davano sia al campo che al lavoro. Sempre la solita zuppa, tanto che adesso il finocchio non lo posso più vedere! Il pane era scuro e aveva anch'esso i semi di finocchio. La Rina, una compagna di prigionia genovese, durante la distribuzione del rancio disse ai tedeschi, parte in italiano e parte in tedesco: "Mia mamma non la dà nemmeno al cane una zuppa così, porci". Chiesero: "Che cosa ha detto la Rina?". Ed io risposi: "Ah! E' arrabbiata! Per i finocchi. Lì siamo rimaste fino alla Liberazione, alla fine di aprile del 1945. Siamo state liberate là. Il campo fu liberato contemporaneamente dai russi e dagli anglo-americani, che giunsero gli uni da una parte e gli altri dall'altra. Fummo prese in consegna dagli Alleati e dopo pochi giorni organizzarono un treno per l'Italia che ci portò fino al confine, quindi a Bolzano. Da lì proseguimmo, ognuno per la sua strada, casualmente su camion militari e mezzi di fortuna, e così arrivammo fino a Cismon appena liberato dagli Americani e dai Partigiani.
Voglio rivolgere un commosso, grato e ammirato pensiero a mia mamma che in quel terribile 1944 si trovava ad avere quattro figli al fronte: Antonio in Jugoslavia, poi partigiano sul Grappa; Pierino in Russia, poi pure lui partigiano sul Grappa; Domenico in Russia; Vigilio in Grecia, morto in un campo di concentramento tedesco, e noi due sorelle in un campo di concentramento in Germania dopo essere state in quello di Bolzano. Nel frattempo ho perso mio padre sommerso dai dispiaceri e dalla malattia. Mia madre, se pur aiutata e sostenuta da mia sorella Maria, badava anche a mio figlio Antonio che quando sono tornata nel maggio del 1945 aveva poco più di due anni. Nei primi tempi dormivo con la mamma e il bambino, e ricordo anche troppo bene che, seppur col suo linguaggio stentato, diceva a mia mamma: mandala via quella là.
Per molto tempo ho portato addosso un malessere che non saprei descrivere, per tanti anni ho avuto la febbre, sono stata visitata da più medici ma nessuno è riuscito a farmela andare via, né a sapermene dire la causa.
Note:
Nel testo, tra parentesi, vengono indicati o nomi di battaglia di partigiani o soprannomi